di Barbara Bassi
Quando si insegna bisogna affrontare diverse difficoltà. Prima di tutto, non serve solamente la conoscenza data dagli anni passati a studiare teorie di apprendimento e metodi di insegnamento (oltre ai contenuti specifici della materia che si vuole insegnare), ma bisogna anche acquisire una certa esperienza. Con il tempo, si sperimenterà la diversità di insegnare in aula rispetto che online, così come le differenze tra fare lezione a un adulto o a un bambino. Nonostante queste basilari considerazioni, può succedere che alla fine di una lezione ben riuscita – così come di una fallimentare – ci si domandi PERCHÉ? Perché un metodo di insegnamento funziona solo con certi studenti? Ma soprattutto, come fare con gli altri? Proviamo insieme a sviscerare il problema con calma.
Diversi background culturali, attitudini e tipi di intelligenza
Ci sono tante variabili in gioco quando si parla di apprendimento. Prima di tutto c’è il cosiddetto background culturale, ovvero quei preconcetti legati all’idea di lezione che provengono dalle abitudini degli studenti sperimentate nel proprio Paese d’origine e a loro volta legate a certi valori e consuetudini. Poi, entrano in gioco le attitudini, ovvero quelle innate disposizioni per una certa attività. C’è chi predilige i lavori manuali, chi ama analizzare la lingua dal punto di vista grammaticale perché ha una mente matematica, chi ama la lettura dei giornali e la discussione su temi di attualità non badando troppo agli errori di sintassi. Infine, ci sono i diversi tipi di intelligenza. Citando Paolo E. Balboni nel libro “Le sfide di Babele”, queste ultime sono basate sulla dominanza emisferica cerebrale, cioè la caratteristica propria di ogni persona di affidarsi preferibilmente alle modalità «destre» o «sinistre» del cervello. È a questo principio che fa riferimento Gardner, lo psicologo di Harvard che individua diverse tipologie di intelligenza presenti in ogni persona ma in combinazioni e con dominanze diverse, che possono dipendere dalla persona stessa, dall’ambiente e dalla cultura di appartenenza.
Qual è il miglior metodo di insegnamento di una lingua straniera?
Bella domanda. Come avrete intuito, non esiste un’unica risposta; tuttavia si potrebbe riassumere la questione con una sola parola: flessibilità. È infatti necessario un alto livello di flessibilità quando si insegna una lingua che, per lo studente, è straniera. L’insegnante, infatti, non deve solo preoccuparsi che ciò che vuole trasmettere all’alunno sia utile e interessante, ma deve anche avere cura del fatto che tale contenuto non venga frainteso per via di barriere linguistico-culturali. L’insegnante, insomma, deve mettersi nella condizione di essere ricettivo/a al 100%, attivando tutti i suoi sensi e ascoltando la sua intelligenza emotiva. Come in tutte le relazioni, infatti, le “giornate no” sono sempre dietro l’angolo, la motivazione potrebbe essere scarsa e il programma pensato per quella lezione potrebbe non rivelarsi così adatto come si pensava inizialmente. La capacità di improvvisare è quindi una dote che non dovrebbe mai mancare a un bravo insegnante di italiano per stranieri. Al contempo, la sua lezione non potrà mai basarsi unicamente sulle circostanze del momento: è fondamentale che vi sia un piano preciso, strutturato sulla base di obiettivi condivisi. Tale piano non può essere uguale per tutti gli studenti e ora vi farò due esempi tratti dalla mia esperienza per farvi capire meglio.
Il primo riguarda E., una studentessa australiana con cui mi sono incontrata ogni settimana per 30 minuti via Skype nell’arco di quasi un intero anno. Il suo obiettivo era quello di prepararsi per un viaggio in Italia con tutta la famiglia, quindi durante le nostre lezioni abbiamo non solo conversato per migliorare le sue capacità di ascolto e comunicative, ma spesso ci siamo concentrate sulla lettura del sito web di un museo che era interessata a visitare, su quello di Trenitalia per esplorare le diverse tipologie di biglietti e affrontare il lessico del viaggio in treno, infine abbiamo simulato una conversazione tra lei e la zia (da cui sarebbe stata ospite per un periodo) riguardo a come caricare la lavatrice per fare il bucato.
Il secondo caso è quello di F., la dipendente di un’azienda presso la quale mi reco due mattine a settimana per insegnarle italiano. F. è americana e ha vissuto per molti anni in Perù; questo significa che la sua lingua materna è l’inglese, di cui ha studiato la grammatica. Al contempo F. parla spagnolo correttamente e fluentemente, pur non conoscendone le regole. Tutto questo, però, l’ho scoperto strada facendo e inizialmente il mio approccio con lei è stato tradizionale: sono partita con spiegazioni su articoli determinativi e indeterminativi, sul genere del nome e così via. Mi sono basata sulla mia conoscenza dello spagnolo, la cui grammatica è molto simile a quella italiana, facendo parallelismi che la potessero aiutare (a mio parere). Niente di più sbagliato. Questo metodo con lei non funzionava, perché la sua esperienza di apprendimento di una lingua straniera (lo spagnolo) era stata immersiva, d’impatto e situazionale. Inutile dire che, cambiando metodo, le cose sono decisamente migliorate per entrambe.
Cambiare metodo di insegnamento rispetto allo studente che ci si trova di fronte, oltre a modificare in itinere il programma pensato per la lezione nel caso in cui le circostanze lo richiedano, non è cosa facile. Sì, perché il vero problema non consiste tanto nel riconoscere che una certa persona sia più propensa ad apprendere attraverso un metodo rispetto a un altro, quanto essere in grado di cambiare il proprio metodo di insegnamento. Ebbene sì, anche noi insegnanti abbiamo la nostra comfort zone e inoltrarci al di fuori di essa potrebbe comportare dei rischi, primo tra tutti l’inefficacia della lezione. Come fare quindi con tutti quegli studenti che ci dicono, esplicitamente o implicitamente, che il nostro modo di lavorare con loro non funziona? Con un atto di coraggio. Si prova, si sbaglia, si migliora, si impara, si raggiungono gli obiettivi. Questo, a mio parere, è il male minore rispetto alle conseguenze della cecità di chi persevera con un metodo che non porterà a nulla di buono per quel particolare studente e in quella particolare situazione. E voi, cosa ne pensate?