Le riflessioni glottodidattiche di molti addetti ai lavori partono spesso, per non dire sempre, da un dato: dalla distinzione sulle caratteristiche dell’apprendimento in ambienti L2 ed LS. Per ripetere un concetto noto ai più: la distinzione teorica tra L2 (lingua seconda) e LS (lingua straniera) è opera di Paolo Balboni, uno dei pilastri della glottodidattica italiana. Egli sostiene, nelle sue attente osservazioni, che si possono delineare delle caratteristiche diverse tra l’apprendimento (e di conseguenza l’insegnamento) di una lingua a seconda del contesto ove questo apprendimento avvenga. Meglio: un corso di italiano a stranieri svolto in una scuola di Roma avrà delle caratteristiche ben diverse rispetto allo stesso corso svolto in una scuola di Parigi, di Tunisi o di Pechino. Sono molti i fattori che, continuando a citare Balboni, influenzano questa distinzione. La maggior parte di questi fattori, però, riguarda l’ambiente che circonda gli studenti: degli alunni trapiantati a Roma e costretti a usare l’italiano per capire la realtà che li circonda saranno esposti a una quantità molto maggiore di stimoli rispetto allo studente parigino che una volta a settima studia italiano per due ore all’Istituto di Cultura della sua città.
L’immersione linguistica, insomma, è un fattore determinante nella didattica: l’input che lo studente straniero in Italia riceve (siamo dunque in ambiente L2) è quantitativamente molto maggiore rispetto allo stesso straniero che decidesse di seguire un corso fuori dall’Italia, in contesti dove l’italiano non è la lingua prima, ma è una lingua straniera.
La pratica complica le cose: non è detto, infatti, che i contesti L2 siano quelli dove lo studente possa davvero imparare meglio. Pensiamo ai migranti che quotidianamente arrivano nel nostro Paese: sono esposti a un input sovrabbondante, e la loro emergenza comunicativa, la necessità, per sopravvivere, di parlare italiano, li costringe a trovare dei modi di comunicazione in fretta, con pochissime mediazioni. Il più delle volte non hanno la possibilità di ricevere un’educazione formale di lingua italiana: imparano sui cantieri, o nelle case degli anziani che accudiscono, nei ristoranti dove lavorano. È molto comune, col passare del tempo, un netto sbilanciamento tra le capacità di produzione e ricezione orale (che raggiungono in fretta livelli piuttosto alti di competenza) e capacità di produzione e ricezione scritta, che invece, mancando un’educazione linguistica formale e consapevole, rimangono molto elementari. Altro fenomeno interessante in quest’ottica è quello della cristallizzazione degli errori o di pratiche linguistiche non corrette. Capita molto spesso, infatti, che in contesti L2 nei quali l’educazione linguistica arrivi tardi (o manchi proprio del tutto), degli errori piuttosto banali si cristallizzino nella produzione dei parlanti, i quali, non avendo avuto la giusta correzione al momento giusto, sono portati a percepire come corretto un certo fenomeno e lo ripropongono acriticamente.
Questo per dire che l’ambiente L2 non è libero da rischi di uno scorretto apprendimento, anzi. Sembrano, di contro, evidenti i vantaggi che l’insegnamento in L2 possa offrire: in primis la possibilità, per lo studente, di essere esposto a stimoli linguistici più numerosi e variegati. Non solo, dunque, le ore di lezioni frontali che lo studente segue in classe, con un input mediato, controllato, selezionato e attentamente scelto, ma anche l’esposizione (spesso la sovraesposizione!) a tutti gli input linguistici ottenuti, più o meno volontariamente, dall’ambiente circostante.
Si pongono delle questioni singolari che riguardano quelle zone di confine non chiarissime, o quelle situazioni didattiche che presentano caratteristiche a cavallo tra i due diversi ambiti.
Sono a tal proposito molto interessanti, per esempio, le classi all’interno di ambasciate, o di istituti religiosi o università straniere: sebbene siano corsi che si svolgono in Italia, sebbene gli studenti siano teoricamente esposti a un grande input linguistico spontaneo e non mediato, spessissimo vediamo che i risultati che otteniamo sono molto più lenti di quanto noi non ci immaginassimo. Perché? Studenti che provengono tutti dallo stesso Paese, che continuano a comunicare tra di loro nella loro lingua (l’italiano, spesso, non gli serve nemmeno così tanto), che si frequentano tra loro e che hanno pochi contatti con madrelingua. Che si portano un pezzo di casa in Italia, e non vogliono lasciarla, non hanno tempo per abbandonarla. Spesso, insomma, le caratteristiche delle classi sono molto più di LS che di L2: e di conseguenza le nostre azioni didattiche (e le nostre aspettative) devono essere ritarate. Dovremo ripensare il manuale che scegliamo (se scegliamo un manuale), dovremo rallentare il ritmo delle lezioni e non dare per scontata l’acquisizione di fenomeni linguistici che supponiamo gli studenti abbiano imparato fuori dall’aula.
È interessante anche il caso contrario, ovvero quei corsi che hanno tutte le caratteristiche sulla carta di corsi LS ma si presentano, nella realizzazione, molto più vicino di quanto non ci si aspetti a corsi L2. È il caso, nella mia esperienza, di molti corsi online. Capitano, infatti, parecchi studenti molto motivati che imparano l’italiano senza seguire un corso in persona, ma frequentando corsi online. Sono studenti che spesso utilizzano diverse tecnologie: dai programmi di autoapprendimento alle lezioni su Skype. Sono studenti che seguono la TV italiana, che leggono in lingua e vedono film. Insomma: che fanno di tutto per immergersi, anche a distanza, nella lingua e nella cultura di un Paese che amano. Al contrario dell’esempio di prima, questi studenti si prendono un pezzetto di Italia e lo portano con loro, anche se in mezzo c’è un oceano e diverse ore di volo. Sono studenti appassionati e colti, motivati e partecipi, che cercano stimoli linguistici e non si limitano a quell’oretta di lezione settimanale. Insomma: sono studenti sui quali sono decisamente proiettabili i metodi di insegnamento e le aspettative che di solito si riservano ai contesti L2.
Questi due esempi vogliono soprattutto dare uno spunto per riflettere: l’insegnamento non è una scienza esatta. Nostro compito è sempre cogliere le sfumature, farci domande, non dare per scontati i contesti e le risposte. D’altronde se avessimo voluto una vita professionale fatta di certezze e stabilità, verosimilmente non avremmo mai deciso di insegnare!