In un’ipotetica biblioteca minima che ogni insegnante di italiano per stranieri dovrebbe conoscere c’è un testo che sicuramente deve avere un posto d’onore in uno scaffale centrale:
Guida all’uso delle parole
Parlare e scrivere semplice e preciso per capire e farsi capire
Tullio De Mauro, Editori Riuniti, Roma, 1980
(In questo articolo facciamo riferimento alla XII edizione).
L’obiettivo di De Mauro nella stesura della Guida non è uno solo, anzi. Un testo apparentemente così semplice, di così facile lettura, offre in realtà moltissimi spunti di riflessione per chiunque si occupi di comunicazione, di parlar bene, di parlar chiaro. Per chiunque voglia farsi capire, insomma, e farsi capire davvero.
Non un manuale di didattica, non un testo pensato precisamente per chi insegni, né tantomeno per chi insegni italiano agli stranieri. Una riflessione, piuttosto, una riflessione (al solito, quando si ha il piacere di leggere De Mauro) strutturata e matura, che, partendo da un’affermazione quasi banale (se parli e scrivi semplice e preciso è più facile che tu ti faccia capire), tocca moltissimi temi fondamentali per tutti coloro che della comunicazione efficace fanno un punto fermo nella propria missione professionale. E chi, più di un insegnante di italiano a stranieri, deve preoccuparsi di comunicare in maniera efficace e precisa?
De Mauro parte dal chiedersi cosa sia la comunicazione, cosa il linguaggio, traccia una breve storia della scrittura, parla della diffusione della scrittura, dell’alfabetizzazione… Si parla molto del destinatario, del messaggio, del linguaggio necessario e di quello creativo, si parla (molto) di parole, e si fornisce un testo nel testo: il vocabolario di base della lingua italiana. Dopo aver dato una definizione di “vocabolario di base”, infatti, De Mauro (con i suoi) propone “una lista di parole che costituiscono il vocabolario di base della lingua italiana”. Si tratta di una lista di circa 7000 vocaboli che, sulla base dei parametri della frequenza, della dispersione, e dell’uso, costituiscono un nucleo di parole che consente di esser compresi da circa l’80% degli italiani.
È bene ribadirlo: la Guida all’uso delle parole non è strutturata, pensata o elaborata in funzione della didattica dell’italiano L2/LS: l’obiettivo è un altro, ed è decisamente più sociolinguistico (come spesso avviene con De Mauro) che glottodidattico. La prima edizione di questo testo è datata 1980: siamo agli albori della ricerca italiana sulla didattica delle lingue, e la Guida, se da un lato si pone in maniera molto precisa su temi a noi vicini, dall’altro non è fatta specificatamente per chi insegna, soprattutto per chi insegna italiano a stranieri. Si parla molto di alfabetizzazione, sì, ma in termini di capacità di produzione e comprensione di testi (soprattutto scritti) da parte di italofoni con un basso livello di scolarizzazione. Si parla di comunicazione precisa, chiara, semplice ed efficace, ma non della comunicazione in aula.
Tutte le riflessioni della Guida, però, sono riproponibili, e senza grosse forzature, al nostro campo.
Sì, è vero, l’alfabetizzazione non ci riguarda poi così tanto. Gli stranieri che studiano l’italiano, e lo dice più di qualche studio, hanno di solito un livello di scolarizzazione e di alfabetizzazione nella loro L1 piuttosto alto, e studiano la nostra lingua dopo aver già appreso almeno un altro idioma straniero. È possibile modellare su questi studenti una riflessione pensata per italofoni con una scarsa alfabetizzazione? In che termini?
Alzi la mano chi non ha mai lavorato con i migranti. Il lavoro con questa categoria unica di studenti, con peculiarità e bisogno molto definiti, è nient’altro che un lavoro di alfabetizzazione. La lingua è uno strumento unico, indispensabile, per questi studenti più che per molti altri, di inclusione sociale, una prima, piccola, fragile chiave per aprirsi un posticino nel mondo. E i nobili temi dell’alfabetizzazione, tanto cari a De Mauro, ritornano, trentacinque anni dopo, con molta veemenza. Un migrante che non conosce l’italiano è molto più facilmente vittima di abusi, di sfruttamento, di esclusione sociale. La lingua è una leva indispensabile per poter tentare di sollevare il macigno dell’emarginazione: e questo accadeva qualche decennio fa in un’Italia che iniziava a riflettere sull’alfabetizzazione di massa, che pendeva dalle labbra del maestro Manzi, e avviene oggi, in un Paese dove le stesse questioni si riaprono per proiettarsi su chi ha e ha avuto l’assoluta necessità, il bisogno vitale, di attraversare mari, deserti e sofferenze per provare ad approdare qui da noi.
L’analisi della Guida sulla comunicazione efficace e semplice, inoltre, è uno spunto interessante che si adatta a una riflessione ben nota in glottodidattica, quella sul teacher talk.
Il teacher talk, giova ricordarlo, è quella forma molto semplificata di parlato dell’insegnante (in classi L2/LS) che mira a farsi capire dalla classe, a non sovraccaricare i poveri studenti con uno stimolo linguistico al di fuori della loro portata. Il vantaggio di questa varietà semplificata dell’italiano è che i nostri studenti faranno quel piccolo sforzo necessario alla comprensione, sforzo che facilita di gran lunga l’apprendimento, e che comunque è alla loro portata. Lo svantaggio, soprattutto secondo alcuni autori, è la perdita dell’autenticità: a che serve, ci si domanda, che lo studente, soprattutto principiante, capisca tutto (o quasi) in aula e poi brancoli nel buio dell’incomprensione non appena uscito da scola? Il dibattito sull’autenticità dell’input è immenso, non è questa la sede per darne conto.
È utile, però, riflettere, e De Mauro in questo ci aiuta non poco, sulla differenza tra una produzione semplice e una produzione semplificata. Che cosa vuol dire parlare semplice? È un impoverimento linguistico? È un output che noi useremmo con un altro madrelingua, o che risulterebbe assurdo, forse puerile? Un’attenta lettura della Guida pare utile per questo: per capire cosa stiamo dicendo. Con quale varietà di italiano entriamo in classe? La semplificazione che operiamo, soprattutto con i principianti, ha un qualche senso linguistico o è un solo un collage di quei pochi pezzi che i nostri studenti possono capire senza soluzione di senso e continuità? C’è modo di monitorare con attenzione e consapevolezza la nostra lingua, prima di pretendere di insegnarla?
Sono domande, tante domande, che prima o poi è necessario farsi (e rifarsi).
E che trovano nella Guida all’uso delle parole, se non una risposta, almeno una base per una riflessione sana.