Lavagna, pennarello, casse, libro di testo: in linea di massima quando entriamo in aula non abbiamo molti altri mezzi. I più fortunati di noi possono contare su aule moderne, su lavagne multimediali e tablet connessi in rete, ma tendenzialmente tutto questo rimane un apparato al quale aspirare con una certa dose di ottimismo. C’è uno strumento, però, che abbiamo tutti, e che spesso, troppo spesso, ci capita di dimenticare: è il nostro corpo, elemento fondamentale per una comunicazione efficace ed efficiente, in grado di aiutarci nella quotidianità didattica ben più di quanto non ci si aspetti.
La materia è duplice, e da un doppio punto di vista va affrontata: sia in ottica di didattica della gestualità, segno caratteristico della nostra lingua, sia in considerazione dell’importanza didattica del corpo, di quello che il corpo trasmette, comunica e veicola, più o meno consapevolmente, durante le nostre lezioni. E non si pensi che questi due differenti aspetti non siano tra loro legati, anzi: la comunicazione non verbale dell’insegnante è da un lato paradigma della gamma gestuale dell’italiano contemporaneo, dall’altro mezzo didattico sull’uso del quale è giusto interrogarsi con consapevolezza.
Per gli aspetti della didattica della gestualità e della riflessione sulla comunicazione non verbale chiamiamo in aiuto l’ampio panorama bibliografico italiano: Cocchiara (1932 e poi 1977) ha dato il via ai più moderni studi in questo settore, con un intervento entrato a pieno titolo nel novero dei classici della glottodidattica. Più recentemente, numerosi gli studi a riguardo di Diadori, la quale già dagli anni ’90 si occupa di questo tema imprescindibile, e sempre col consueto rigore scientifico (si suggerisce su tutti Diadori (2013), con ampia e ragionata bibliografia sul tema).
Si è espressa a riguardo anche una voce davvero fuori dal comune, quella di Bruno Munari, artista-designer eclettico e sempre sorprendente: nel suo imperdibile Supplemento (1963) si trova un’antologia fotografica della gestualità dell’italiano contemporaneo, in una chiave di rappresentazione sempre attuale, quella del fare per capire.
E chi si è espresso su questo argomento ha sempre offerto un punto di vista unanime: il linguaggio gestuale è strumento di comunicazione che afferisce a pieno titolo all’italiano contemporaneo, e che come tale va insegnato nei suoi numerosi usi e significati. La nostra lingua è connotata anche dalla gestualità che tanto la caratterizza, al di là degli stereotipi, e non trasmettere questo pilastro della comunicazione italiana vuol dire offrire un punto di vista parziale e non completo delle gamme disponibili di espressioni del significato.
Riveste parimenti un’importanza nodale anche la gestione del corpo all’interno dello spazio/aula: cosa trasmette il docente con la sua fisicità agita in classe è un tema col quale è sempre necessario confrontarsi. Spesso tralasciamo di riflettere sul messaggio (più o meno consapevole) che il nostro corpo veicola, e questo errore, oltre a rischiare di creare una frizione culturale coi nostri studenti, può inficiare la fluidità comunicativa della nostra lezione.
L’argomento è davvero vasto, e qui si vogliono fornire alcuni spunti di riflessione. Gli occhi e lo sguardo sono un esempio ben preciso della comunicazione non verbale all’interno dell’aula. Riflettere scientemente su dove sto guardando quando parlo coi miei studenti è senza dubbio un primo passo verso una gestione più consapevole del mio spazio didattico. Soprattutto: da dove guardo lo studente? Pratica comune è fissare lo studente dall’alto in basso, l’insegnante in piedi e lo studente seduto, col docente che tiranneggia con la sua presenza sopra il suo alunno, sempre più intimorito. Ricordate i nostri insegnanti di scuola? Quelli un po’ vecchio stile, non molto illuminati, ancorati a un superato modo di agire la didattica? Quando volevano terrorizzarci, ci fissavano dall’alto, loro in piedi e noi seduti nel nostro banchetto sgangherato, dominandoci così, anche solo col loro sguardo inquisitore. Per pochi di noi questi sono bei ricordi: e questa riflessione, su tutte, deve spingerci a ridefinire l’aspetto della gestione del corpo in aula, aspetto spesso dimenticato. Quante volte, durante la lezione, mi abbasso verso lo studente e porto il mio sguardo a livello del suo? Riuscire a creare uno spazio visivo intimo, sicuro, protetto, nel quale il mio alunno possa sentirsi a suo agio, possa trovare davanti a sé uno come lui, uno al suo livello, che non gli metta paura, che non lo spaventi, che non lo giudichi, beh, sarà scontato, ma questo è un espediente fondamentale nella lotta al temibilissimo filtro emotivo, sintomo spesso di una scarsa sintonia tra l’insegnante e il suo alunno.
Né si può tralasciare un altro aspetto, tra i tanti, che riguarda la nostra presenza fisica in aula: dove siamo mentre la classe lavora. Meglio: cosa fa il nostro corpo, dove guarda, mentre i nostri studenti sono impegnati in attività che non richiedono la nostra presenza? Un esempio: assegno una lettura, stabilisco il tempo necessario per lo svolgimento del compito e lascio il plenum a lavorare. In cerchio, le loro sedie una a fianco all’altra, la mia da una parte. E io? E la mia sedia? Rimango lì e li ascolto parlare, magari intervenendo se necessaria una correzione? Oppure mi alzo, rimuovo la mia seduta, chiudo il cerchio e lascio la classe lavorare senza di me, senza la mia osservazione, senza il mio filtro, senza la mia presenza, magari troppo ingombrante, per favorire quella fluidità comunicativa alla quale faticosamente ambisco? Ancora: lascio gli studenti lavorare in coppie o in piccoli gruppi. Uno a fianco all’altro, vedo tutti gli elementi della classe che parlano tra loro. La distanza mi impedisce di capire precisamente cosa stanno dicendo, se ci sono errori che vanno corretti, se hanno realmente capito lo scopo dell’esercizio che ho somministrato loro. Come mi comporto? Quale messaggio voglio che il mio corpo, che il mio agire col corpo, veicoli loro? Mi avvicino e mi abbasso fisicamente al loro livello e ascolto ciò che dicono? Oppure me ne sto in disparte, li guardo appena, senza preoccuparmi più di troppo della correttezza della loro produzione orale?
Ecco, domande, tante domande. Questioni aperte che ci portano a un primo punto fermo: non c’è una regola fissa. Quando si tratta di insegnamento, non c’è quasi mai una regola fissa, un giusto o uno sbagliato da applicare pedissequamente alle nostre lezioni, e questo lo sappiamo bene. Anzi: essere perentori, seguire un brogliaccio troppo preciso, rischia spesso di portarci lontano da una corretta pratica didattica. E lo stesso vale per la gestione del corpo durante i momenti di didattica: non c’è una regola che ci dica cosa fare, cosa non fare, come muoverci, quanto e quando stare fermi. C’è un’indicazione, però, essenziale: ed è quella di ricordarci del nostro corpo. Di sentirlo in classe, di immaginarlo nello spazio/aula, di ragionare sulla posizione che stiamo assumendo e su quale messaggio venga da quella posizione veicolato.
Dare il corpo per scontato e non considerarlo un grande, essenziale, mezzo di comunicazione è il più grande errore che possiamo fare quando siamo in aula, quando ci troviamo davanti a una classe alla quale abbiamo il dovere di raccontare qualcosa di stupendo, anche con tutto il nostro corpo.
Cocchiara, Giuseppe: Il linguaggio del gesto, Fratelli Bocca Editore (1932) e poi Carocci (seconda edizione, 1977)
Diadori, Pierangela: Gestualità e didattica della seconda lingua, questioni interculturali, in AAVV, Aspetti comunicativi e interculturali nell’insegnamento delle lingue, Edizioni Dell’Orso (2013)
Munari, Bruno: Supplemento al dizionario italiano, Corraini (1963)